Questo articolo di Antonio Finazzi Agrò, Vicepresidente di APIS, è stato pubblicato in versione originale sui «Quaderni Genialis», Edizione n° 3, maggio 2025.
1. Introduzione: il principio generativo
Generatività, additività, plusvalore, eccedenza sono tratti essenziali dell’agire umano. La generatività sociale non è che una forma esemplare, come l’arte, come il comportamento morale, della più generale generatività che contraddistingue la specie umana.
Sul piano della produzione estetica, dei funzionamenti cognitivi, dell’attività economica, del comportamento morale e sociale, è infatti l’agire umano in quanto tale a essere intessuto di generatività: un agire creativo in relazione al mondo, secondo cui il vivente, recependo dall’esterno stimoli, spunti, sollecitazioni, è in grado di trasformare ciò che accoglie in modo non deduttivo e non deterministico, generando transattivamente forme nuove, costellazioni inedite, sintesi originali e autonome non derivabili dalle singole premesse. L’agire umano è, con le parole di Luigi Pareyson (1988), “un tal fare che mentre fa inventa insieme il modo di fare” (p. 30)[1].
Probabilmente questa additività appartiene già alle soglie inferiori della vita, che trasformando l’inorganico in organico opera costantemente un salto qualitativo di specie. Ma nel vivente questa caratteristica biologica si precisa ed intensifica, sino a divenire il suo tratto distintivo e dominante. L’uomo è colui che ha da agire, e ha da agire in modo libero, determinando sé e il mondo su basi non ancora codificate[2].
È ciò che Giaccardi e Magatti (2024) chiamano “tensione neghentropica”, ovvero quel dinamismo caratteristico della vita in grado di unificare il molteplice, cioè l’entropico, secondo leggi organiche sempre nuove e diverse: «un organismo vivente è infatti una struttura naturale che – grazie allo scambio costante di materia ed energia con l’ambiente circostante – crea e mantiene le condizioni che rendono possibili processi di auto-organizzazione. L’insieme di queste condizioni è ciò che chiamiamo “vita”» (p. 23). Queste forme “neghentropiche” sono in relazione strutturale, organica e genetica con l’ambiente, il “ground” inanimato da cui derivano i propri input, di cui tuttavia non sono né la somma né il calco automatico. Neghentropia ed entropia, vita e morte, unità e molteplice sono tra loro in rapporto dialettico e transattivo, e più che il già formato per la vita e per l’esistente umano conta il costante formare, dov’è messo alla prova il proprio desiderio e il proprio principio vitale. L’uno – l’individuazione, la forma, la vita – presuppone il due – l’ambiente, il ground, il contesto, ma anche il passato, la tradizione e la storia.
Questa formatività generativa non è una attività di creazione dal nulla; né è, per intendersi, una produzione idealistica basata sull’intuizione, come già in Benedetto Croce e in tutta la tradizione idealistica occidentale. È invece lotta e dialogo con una materia, un “già dato” che ci preesiste. È sua interpretazione personale, creativa ma non arbitraria, originale ma non originante; è generazione a partire da un molteplice che ci precede, da organizzare in forme nuove, autonome e sensate, dotate di una propria legalità interna e di un proprio principio organico di sviluppo, cioè in qualche modo forme “altre”, autonome e distinte dal soggetto che le ha generate. Così procedendo, le forme da un lato si distinguono dal soggetto che le ha generate, dall’altro testimoniano un’eccedenza della sua interiorità, una sua potenza additiva che è tra i più profondi misteri dell’animo umano, di cui finiscono per essere il “simbolo”.
La questione dell’eccedenza al cuore dell’agire umano interroga e inquieta l’intera tradizione filosofica moderna e contemporanea. Già Kant (2000) nella sua Critica della Ragion Pura esprimeva stupore per questa capacità inventiva celata nel profondo dell’animo umano di produzione autonoma e creativa di schemi interpretativi non precostituiti, che i suoi stessi principi trascendentali non riuscivano a giustificare interamente: «Questo schematismo del nostro intelletto, rispetto ai fenomeni e alla loro semplice forma, è un’arte celata nel profondo dell’anima umana, i cui veri strumenti noi difficilmente strapperemo alla natura per esporli scopertamente innanzi agli occhi» (p. 138). Ma risalendo oltre, fino alle radici platoniche e aristoteliche della tradizione occidentale, la questione dell’origine delle specie universali sotto cui il pensiero sussume il molteplice dell’esperienza non ha mai smesso di sollecitare la ricerca filosofica. Né la teoria platonica delle “idee”, né quella aristotelica delle “forme”, fornirono una sistemazione soddisfacente alla questione, che in effetti finì per porsi come “la” questione dominante, anche nel successivo dibattito gnoseologico medievale sugli universali, per poi essere consegnata all’intera epistemologia moderna e contemporanea. Né attualmente, ripresa dai filoni contemporanei delle scienze neuro cognitive, la problematica appare essere sciolta[3].
Il fatto è che il principio generativo, anche in vista di una sua applicazione alla generatività sociale, ha proprio nell’eccedenza il suo presupposto originario. Senza eccedenza non si giustifica la generatività. L’eccedenza, da cui dipende l’additività di ogni operazione umana, si attesta come esperienza di un estraneo nel cuore del medesimo, di cui il soggetto stesso che compie le proprie operazioni non sa darsi conto fino in fondo, e con cui non è in grado di fare tutti i conti. Il più stupito della propria fondazione è, se si mantiene onesto con sé stesso sino in fondo, lo stesso fondatore, che riconosce umilmente di non essere all’origine della propria creazione. Stupore è il nome proprio di ogni creazione umana! Con le parole di Heidegger (2007), Denken ist Danken, pensare è ringraziare. O con quelle ancora più incisive del Poeta veggente Rimbaud, che definiva “questi egoisti” i poeti parnassiani che si reputavano autori e protagonisti dei propri versi, “Je est un Autre”, Io è un Altro[4]. O ancora con Bellet (2006), che afferma: «Per quanto mi riguarda, parlo di un altro senso del pensiero, quello dell’ascolto. Per il pensiero è essenziale stare all’ascolto. Significa cogliere “l’estraneo” sotto l’aspetto del dono» (p. 147). O infine e più modestamente, si tratta dell’esperienza narrata dal Pinocchio di Collodi, in cui il burattino che si anima e prende vita sopraffà di gioioso stupore, per quel di più di vita totalmente imprevisto e imprevedibile, il suo artefice Geppetto.
Ecco che l’eccedenza a sua volta mette in gioco, come suo presupposto originario, l’interiorità in cui è possibile sperimentarla, come irrisalibile sorgente donativa. Anche in questo la testimonianza poetica è straordinariamente chiarificatrice circa l’esperienza che il soggetto, attraverso il principio generativo, fa con sé stesso; si pensi alle luminose parole del poeta Paul Celan (2008): «Ben vengano, dai più remoti distretti dello spirito, parole e immagini e gesti, velati come nel sogno e come in sogno». La generatività non è che l’interiorità che si rovescia ad extra. È esteriorità che simbolizza la coscienza, coniugata al mondo. E, in effetti, ogni realizzazione umana generativa è strutturalmente “simbolo” (dal greco syn-bolon), cioè elemento sintetico, concreto e percettivo in cui Io e Mondo sono messi in rapporto, nella mediazione di un varco accessibile all’uno e all’altro. Il principio generativo finisce quindi per mettere in causa la questione della coscienza umana e della sua struttura interiore, intimamente molteplice, relazionale e ospitale, e dunque su un piano essenzialmente antropologico, al di là di qualunque steccato confessionale, finisce per porre la questione della spiritualità del vivente. Perché è un fatto: dalla materia non si deduce la materia, dall’inanimato non sorge l’inanimato.
2. Per un Manifesto della generatività sociale
Le organizzazioni della generatività sociale (OGS)[5]sono quelle formazioni sociali ed economiche che esibiscono al centro del proprio funzionamento la plusadditività sociale, adottando come forma specifica e caratteristica del proprio funzionamento intenzionale la consegna del valore sociale prodotto alle comunità. Per valore sociale si intende quell’insieme di beni tangibili e intangibili, materiali e immateriali, personali e relazionali, che consentono ai singoli e alle formazioni in cui si esprime la loro personalità di ottenere riconoscimento, benessere, equità, legittima realizzazione e dignità sociale. Una definizione più icastica, ma molto suggestiva, di cosa sia il valore sociale è possibile ricavarla dal filosofo Paul Ricoeur (2007) che così si è espresso rispetto all’etica sociale: «Definirei la prospettiva etica con questi tre termini: “auspicio della vita buona, con e per gli altri, all’interno di istituzioni giuste”»[6].
Dall’adozione del principio generativo in forma esplicita e intenzionale derivano alle OGS alcune caratteristiche isomorfe, cioè ricorrenti in grado più o meno accentuato in tutte le OGS, al punto da poter essere adottate come criteri di valutazione e discrimine della loro effettiva generatività:
- una prima caratteristica delle OGS è la disappropriazione del valore prodotto, cioè la sua consegna ad altri e al mondo[7]. Ciò che viene dall’altro torna accresciuto e umanizzato all’altro. Il loro principio intimo, il loro ideale regolativo è: se il chicco di grano non cade in terra e non muore rimane solo (Giovanni 12, 24). Le OGS incarnano ed esprimono in forma radicale l’ambizione più profonda del desiderio umano, che è generare compagnia. Sovvertono così il paradigma neoliberistico, che suppone invece l’autoriferimento e l’appropriazione totale dei risultati della produzione agli shareholder. Mancini (2004), richiamando il pensiero di Lévinas, così esprime questo rovesciamento di prospettive: «Vi pare piccola rivoluzione se il baricentro del mondo va dall’io all’altro, uno stare faccia a faccia, una comunità di volti, dove il diritto dell’altro verso di me va pensato senza reciprocità, ossia senza il diritto mio di fronte all’altro?».
- Una seconda caratteristica delle OGS è la radicale destandardizzazione delle proprie operazioni, che è conseguenza diretta del loro sbilanciamento sul contesto esterno. Le OGS sono costrette alla costante invenzione, in quanto sono chiamate ad agire in modo trasformativo, rispetto a problemi nuovi in contesti sociali turbolenti. Le OGS operano progettualmente, e in modo idiosincratico, anche quando gestiscono servizi ripetitivi. In un certo senso il loro funzionamento è il contrario speculare del proceduralismo burocratico, che è invece la caratteristica della Pubblica Amministrazione. Tanto le OGS sono tenute a vigilare sul tendente isomorfismo che il rapporto con le burocrazie amministrative può produrre, quando il Terzo Settore accetta di ridursi a parastato.
- Una terza caratteristica delle OGS è la loro socialità radicale, cioè la loro struttura relazionale sia interna che esterna. La socialità è per le OGS ciò che l’interiorità, a sua volta ritmata relazionalmente, è per la persona umana. «Dove due o tre sono riuniti» (Matteo 18, 20): allora accade la generatività sociale! La generatività sociale non tollera solitudini e isolamenti, non è storia dell’ego, la sua condizione di felicità è la comunanza. Ogni storia generativa è storia di un incontro. “Con altri” è la sua legge di sviluppo, e insieme il suo discrimine più autentico. Ogni organizzazione genuinamente generativa rivela al suo interno di essere espressione di comunità, e spesso è manifestazione in superficie di intrecci ancora più profondi, che nel patto organizzativo si riannodano come comunità di comunità.
- Una quarta caratteristica è che le OGS sono propizie, e propiziate, dalla cura dell’interiorità. L’atto di generare si fonda su un accordo originario al mondo, secondo Heidegger (1976) una situazione affettiva (Befindlichkeit), con cui siamo “intonati” all’Essere mediante singoli “accordi” emotivi (Stimmungen), che costituiscono le condizioni effettive alle quali il mondo stesso è rappresentato, percepito, progettato dal vivente (pp. 172-178). In quanto tali, precedono il mondo e lo determinano. L’esperienza di pienezza percepita, di sovrabbondanza che urge dentro, di eccedenza interiore sono le “stimmung” che condizionano la generatività sociale, perfino determinando una certa coazione a generare per semplice effusione di un bene interiormente percepito. Sono, direbbe Paolo di Tarso, l’esperienza di quella “potenza straordinaria che ci abita”, di quel “tesoro che noi abbiamo in vasi di creta”, per ricordare sempre che, in ultima analisi, il principio vitale che esprimiamo non viene da noi (2 Corinzi 4, 7). La cura di queste dimensioni così profonde e intime è dunque una questione fondamentale, perché da loro dipende la stessa maggiore o minore generatività dell’azione di una OGS, che non è altro che manifestazione storica e sociale di una spiritualità, da manutenere e alimentare costantemente, perché la vita continui a passare.
- Una quinta caratteristica è il rapporto delle OGS col tempo, e il rinvio alla speranza: le OGS rielaborano costantemente il proprio passato, criticano e trasfigurano il presente, anticipano e prefigurano in nuove forme il futuro desiderato, che, in quanto futuro, è per loro la qualità dell’Essere. L’azione delle OGS è, parafrasando Marx (1969), «il movimento reale che trasforma lo stato delle cose presente». L’agire delle OGS si conforma alla speranza, che a sua volta, secondo Moltmann (1970) non tende a «gettar luce sulla realtà esistente, ma su quella veniente», e «non regge lo strascico alla realtà, ma porta la fiaccola davanti a lei», perché la speranza «non conduce l’uomo a conformarsi ed accordarsi alla realtà data, ma lo coinvolge nel conflitto tra esperienza e speranza» (p. 12), in quanto «colui che ha questa speranza non potrà mai adattarsi alle leggi e alle fatalità ineluttabili di questa terra: né al carattere inevitabile della morte né al fatto che il male generi sempre altro male» (p. 15). Le OGS sono dunque realtà ed espressioni sociali niente affatto innocue, rispetto agli assetti presenti. Sono anzi la più esiziale delle minacce per l’attuale sistema tecno capitalistico, basato sullo sfruttamento delle pulsioni umane, messe letteralmente al lavoro della produzione di valore attraverso la coazione al consumo, e non è nemmeno da escludere che, laddove la loro azione divenisse più incisiva, il sistema stesso reagirebbe, contrastandole esplicitamente o tentando di addomesticarle, rabbonendole con qualche beneficio. Qualche segnale in merito ci pare già in atto. I motivi li spiega bene, da ultimo, Byung-Chul Han (2025), che nel suo recentissimo saggio scrive: «I consumatori non sperano nulla. Hanno solo desideri o bisogni. Non hanno bisogno di nessun futuro. Dove il consumo diventa totalizzante, il tempo si atrofizza e si blocca in un presente permanente fatto di bisogni e del loro soddisfacimento. La speranza non appartiene al vocabolario capitalista. Chi spera, non consuma» (p. 27). L’azione delle OGS è esercizio metodico, intenzionale e militante della speranza, che confina con l’escatologia. Questo è anche ciò che rende attrattive queste espressioni sociali, perché simboliche: simbolizzano una “passione per il possibile” che corrisponde al più radicale desiderio umano, e lo rendono percepibile e sperimentabile.
[1]Da qui in avanti il riferimento è costante e serrato con l’estetica di Luigi Pareyson (1988), che non è in prima battuta una teoria dell’arte, ma uno studio dell’uomo che produce senso, nell’atto di produrre senso, essendo l’attività estetica un caso speciale di un genere universale che comprende ogni operazione umana. Garroni (1992) chiarisce ulteriormente la questione del significato di una teoria estetica per una teoria generale dell’operare umano: «Ciò che chiamiamo estetica è solo marginalmente una disciplina sociale volta all’esame di certi oggetti, per saperne di più, ad esempio scienza dell’arte o del bello, ed è invece essenzialmente uso critico del pensiero, che ha nell’arte, in ciò che da non molto tempo chiamiamo arte, non un oggetto epistemico, ma un referente privilegiato» (p. 25).
[2]Riferendoci alla rivoluzione digitale in atto, specie nei suoi riflessi applicativi all’intelligenza artificiale generativa, potremmo dire che la caratteristica intrinseca con cui il vivente compie le proprie operazioni è di agire in modo non lineare, non regolato da un algoritmo preesistente, bensì in modo tale che, mentre le informazioni vengono combinate, strutturate e articolate in una forma nuova, al contempo e di volta in volta si escogita in modo del tutto creativo e originale l’algoritmo che regola l’intera operazione.
[3]La bibliografia sull’argomento, qui ripreso in assoluto compendio, è ovviamente sterminata, in senso letterale. Perfino la più ampia delle selezioni risulterebbe arbitraria e parziale. Si veda però, per un inquadramento di massima della tematica, Eco U., (1997), pp. 43-101 e 349-373. Circa il dibattito medievale sugli “universali” si veda Gilson E., (1997), in particolare pp.281-312.
[4]Il celebre passo di Rimbaud (2007), tratto dalla Lettera a Paul Demeny, è talmente suggestivo, ai fini di un chiarimento del principio generativo, che merita di essere riportato per intero: «Infatti; Io è un altro. Se l’ottone si desta tromba, non è certo per colpa sua. La cosa mi pare ovvia: io assisto allo sbocciare del mio pensiero: lo guardo, lo ascolto: do un colpo d’archetto: la sinfonia si agita nelle profondità, oppure salta con un balzo sulla scena. Se i vecchi imbecilli non avessero trovato dell’Io che il significato falso, non avremmo da spazzar via questi milioni di scheletri che, da tempo infinito, hanno accatastato i prodotti del loro guercio intelletto, proclamandosene fieramente gli autori! […]. Il primo studio dell’uomo che voglia esser poeta è la sua propria conoscenza, intera; egli cerca la sua anima, l’indaga, la scruta, l’impara. Appena la sa, deve coltivarla; la cosa sembra semplice: in ogni cervello si compie uno sviluppo naturale; tanti egoisti si proclamano autori; ce ne sono molti altri che si attribuiscono il loro progresso intellettuale!».
[5]Poche denominazioni sono opache e fuorvianti quanto quella di “non profit”, peraltro spesso corrotta nel lessico comune in “no profit”. In primo luogo, come tutte le definizioni privative, dichiara quale non sia lo scopo delle organizzazioni che denomina, lasciando del tutto impregiudicati i loro scopi autentici. Adombrando addirittura l’idea che gli enti “non profit” siano in sé orfani di scopi, quando invece è evidenza comune che siano proprio queste tipologie di organizzazioni economiche e sociali a essere economie “purpose-driven” (si veda su questo Pearlman, 2018), perseguendo intenzionalmente nel nostro ordinamento dei “superscopi” collettivi, per la realizzazione del bene comune. Tali sono tutti i settori di attività attualmente ricompresi all’art. 5 del Codice del Terzo Settore (D.lgs. 117/2017) in quanto afferenti all’ “interesse generale”. In secondo luogo, la denominazione esprime una visione del tutto dicotomica e oppositiva, tipica dei sistemi anglosassoni, che ripartisce l’agire economico e sociale tra “profit” e “non profit”, quando invece la fenomenologia concreta porta a scorgere piuttosto una gradazione, in termini di internalità ed esternalità positive e beni sociali prodotti dalle organizzazioni ricomprese nei due ordinamenti. Infine, ed è la più forte obiezione, “non profit” e più ancora la versione corrotta “no profit” suggeriscono che la caratteristica intrinseca delle organizzazioni sia un basso livello di additività e plusvalore, in relazione agli input acquisiti. È esattamente l’opposto. Anche in termini astrattamente giuridici, la caratteristica degli Enti del Terzo Settore non è il divieto di produzione di utili, che in sé non sussiste, quanto quello di appropriarsene. Il fatto che il valore aggiunto realizzato, la generatività specifica che dovrebbe caratterizzare gli Enti del Terzo Settore non è tanto economica, quanto sociale, non sottrae nulla al fatto che di autentico valore aggiunto si tratti. Al postutto, non profit pare una di quelle denominazioni nate nel campo economico, da attori economici, per delimitare ciò che economico, od esclusivamente economico, non è. È dunque una definizione fortemente eteronoma. Preferiamo pertanto sostituire alla denominazione “non profit” quella di “Organizzazioni della generatività sociale”.
[6]Cfr. anche Ricoeur (1993), pp. 263 e ss.
[7]La caratteristica degli Enti del Terzo Settore, alla luce del CTS, è in effetti proprio questa ibrida coesistenza di natura pubblicistica e ordinamento privatistico. Una definizione molto pregnante è riportata nel Documento di ricerca n° 17 a cura del Gruppo di Studio per il Bilancio Sociale “Rendicontazione Sociale nel Non Profit e Riforma del Terzo Settore” (2020) che qualifica tali enti in quanto «forme di impresa o organizzazioni che tecnicamente sono “senza interessi proprietari”, poiché nessuno ha diritto di prelievo dell’utile per scopi privati, e che devono perseguire una finalità sociale in senso universalistico, attraverso l’equo bilanciamento degli interessi dei vari soggetti che contribuiscono al suo perseguimento, avendo però come finalità principale la soddisfazione di un interesse generale o di un bisogno prioritario rispetto agli interessi di coloro che cooperano alla sua soddisfazione» (p. 35).
Fonti bibliografiche
- Bellet M., (2006), Il Pensiero che ascolta, (Passerone L., Trad. it.), Paoline, Milano (opera originale pubblicata nel 2004).
- Byung-Chul Han (2025), Contro la società dell’angoscia. Speranza e rivoluzione, (Canzonieri A., Trad. it.), Einaudi, Torino.
- Celan P., (2008), La Verità della Poesia, a cura di Bevilacqua G., Einaudi, Torino.
- Eco U., (1997), Kant e l’Ornitorinco, Bompiani, Milano
- Garroni E., (1992), Estetica. Uno sguardo-attraverso, Garzanti, Milano.
- Giaccardi C., Magatti M., (2024), Generare Libertà. Accrescere la vita senza distruggere il mondo, Il Mulino, Bologna.
- Gilson E., (1997), La Filosofia nel Medioevo, (Del Torre M.A., Trad. it), La Nuova Italia, Firenze (opera originale pubblicata nel 1952).
- Heidegger M, (2007), Che cosa significa pensare?, (Volpi F., Trad. it.), Adelphi, Milano, 2007 (opera originale pubblicata nel 1954).
- Heidegger M., (1976), Essere e Tempo, (Chiodi P., trad. it.), Longanesi, Milano (11° ed., opera originale pubblicata nel 1927).
- Kant E. (2000), Critica della Ragion Pura, (Gentile G., Lombardo-Radice G., Trad. it.), Laterza, Bari (10° ed., opera originale pubblicata nel 1787).
- Mancini R., (2004), L’uomo e la Comunità, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose.
- Marx K., Engels F. (1969), L’ideologia tedesca, (Merker N., Trad. it), Editori Riuniti, Roma (opera originale pubblicata nel 1932).
- Moltmann J., (1970), Teologia della Speranza, (Comba A., Trad. it.), Queriniana, Brescia (opera originale pubblicata nel 1964).
- Pareyson L. (1988), Estetica – Teoria della Formatività, Bompiani, Milano (4° ed., opera originale pubblicata nel 1954).
- Pearlman R. (2018), Profit vs Purpose: The Duel Begins, Briefings Magazine, (35), 28-35, Korn Ferry, Los Angeles.
- Ricoeur P., (1993), Sé come un Altro, (Iannotta D., Trad. it.), Jaca Book, Milano (opera originale pubblicata nel 1990).
- Ricoeur P., (2007), La vita buona è aver cura dell’altro, sta in: Avvenire, 12/10/2007.
- Rimbaud A. (2006), Lettera a Paul Demeny, sta in: Oeuvres/Opere, a cura di Margoini I., Feltrinelli, Milano (3° ed., opera originale tradotta in Italia nel 1978).
- Rogate C., Sacconi L., Esposito P., Magrassi L., Palombelli P., Viviani M., (2020), Rendicontazione Sociale nel Non Profit e Riforma del Terzo Settore, FrancoAngeli, Milano.