Caro Tullio,
questo 2017 si apre con una cattiva notizia: d’ora in avanti dovremo fare a meno della tua intelligente e appassionata compagnia. Mi permetto la confidenza del tu, ora che ci hai lasciato, perché in tutti questi anni ti ho guardato come un maestro, devo dire fin dai tempi delle lezioni universitarie, e ai veri maestri si finisce per volere bene come a dei familiari.
Avverto con te un debito grande, che è di tutti coloro che come me si occupano di “sociale“: sei stato tra i pochi ad aver spostato la riflessione linguistica molto oltre il perimetro del dibattito accademico, puntando in ogni momento della tua parabola intellettuale alle questioni sociali autentiche del Paese. Nessuno più di te ha intuito e insistito sul nesso esistente tra lingua, istruzione e democrazia. Perché, come ripetevi spesso, la democrazia è “discutidora“, e chi non è in grado di discutere con gli altri, padroneggiando la tecnica fondamentale della lingua, è tagliato fuori da ogni possibilità di intesa e auto promozione. Nessuno più di te ha fustigato gli usi, gli abusi e i tic linguistici delle élites italiane – e quanto spesso io stesso mi sono sentito fustigato – irridendo il malcostume delle burocrazie e delle amministrazioni pubbliche con quei loro codici linguistici arruffati, barocchi e incomprensibili, che stigmatizzavi come forma di autentica maleducazione…
Nessuno più di te ha ridicolizzato il conformismo della scuola, la scempiaggine di certe pedagogie gentiliane a cui fino a poco tempo fa si ispiravano i programmi ministeriali, in base ai quali «Il fanciullo (sic!) apprenderà dapprima a comporre elaborati semplici e chiari, e quindi man mano che progredirà nell’istruzione vieppiù complessi» (Cit., Capire Le Parole). E nessuno più di te ha contribuito a restituirci una percezione della lingua come processo storico, sociale e determinato dagli usi, più che dalle norme e dalle regole che pretendono di cristallizzarla. Ché usare le parole, amavi ripetere citando il tuo maestro Antonino Pagliaro, significa al postutto far uso di espedienti «scaltriti quanto si vuole, ma pur sempre poveri espedienti».
Forse chi ti è somigliato di più è stato don Lorenzo Milani. Hai compreso e condiviso le esigenze morali del suo insegnamento e della sua “scuola” prima e meglio dei suoi confratelli preti, ma anche più degli intellettuali dell’epoca e dei dirigenti del PCI di allora. Io credo che ora ti stia aspettando a braccia aperte, per discorrere insieme, chissà, del babbo di Pierino e dei tanti, troppi montanari semi analfabeti ancora oggi sparsi in tutto il mondo. Lettera a una Professoressa sembra uscita da un tuo saggio, o forse è vero il contrario, è il tuo pensiero che vi si è alimentato. Io lì e nei tuoi scritti, anche quelli squisitamente teorici, ho sempre trovato la stessa tensione morale, lo stesso rigore, lo stesso incalzante e sorvegliatissimo incedere verso le questioni davvero decisive dell’educazione.
Certo, tu a quelle istanze sei stato in grado di offrire un fondamento scientifico che resterà forse insuperato, perché hai battuto il sentiero di Gramsci, di Croce, di Pagliaro, di De Saussure, di Wittgenstein, svecchiando un dibattito italiano completamente arenato su un certo formalismo idealistico – quando hai iniziato a insegnare e pubblicare l’Italia intellettuale era ancora un’italietta crociana – e insegnandoci a leggere questi autori in tutta la loro viva tensione. Non ultimo, come necessari tasselli di un pensiero civile sull’espressione e l’interazione linguistica ancora tutto da elaborare. O da sperimentare ancora e ancora, come quando – chissà quanti lo sanno? – nell’89 facesti scaturire il progetto “Due Parole”, giornale di informazione per i “lettori dimenticati” direttamente dal Laboratorio di scrittura semplificata della tua Cattedra di Filosofia del Linguaggio de La Sapienza. Ohibò, filosofi e ricercatori che si occupano di semplificare il linguaggio: un inedito assoluto!
Ora nei prossimi giorni, ne sono certo ed è più che giusto, l’intero mondo accademico e internazionale, la comunità scientifica con cui ti sei accompagnato ti dedicheranno il dovuto tributo. Prenderanno parola gli intellettuali più autorevoli che hanno condiviso con te lo studio, le personalità del mondo della cultura e della ricerca scientifica a cui hai dato lustro in tutti questi anni di lavoro.
Probabilmente però non trapelerà il grazie delle centinaia di migliaia di “lettori dimenticati” a cui invece si è indirizzato il tuo impegno di intellettuale militante, di intellettuale “al servizio” come pochi ce ne sono stati in questo Paese.
Permettimi allora, come progettista sociale e tuo ex studentello, di farmi io interprete della gratitudine di questo popolo di reietti dalla cultura ufficiale, che nessuno neppure considera come potenziali lettori e di cui oggi, appreso che purtuttavia costoro votano e formano il consenso proprio quando le intermediazioni vacillano, forse ci si dovrebbe tornare ad occupare: persone con disabilità, con ritardi e disfunzioni, con deficit e dislessia o semplicemente cittadini con bassissima istruzione, e pur tuttavia costituzionalmente cittadini sovrani, pari in dignità e diritti senza distinzioni “di condizioni personali e sociali”. Per quel tanto che hai fatto, per la lezione che ci hai lasciato, per lo sforzo intellettuale e morale compiuto in direzione del superamento degli “ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”, grazie da parte nostra e da parte loro.
(Antonio Finazzi Agrò)