In questo post vorrei consegnare alla comunità dei progettisti un insieme di questioni che sono derivate dall’incontro che APIS ha organizzato con Francesco Maietta, responsabile delle ricerche sul welfare del Censis, rispetto agli esiti del 48° rapporto sulla situazione del paese. Proverò anche a condividere alcune riflessioni, ma spero meno esaustive possibile.
Prima questione: perché un progettista sociale dovrebbe occuparsi della situazione del paese? Perché alzare lo sguardo su cosa accade in Italia e nel mondo, visto che siamo prevalentemente concentrati nell’analizzare i fabbisogni dei nostri utenti, territori o problematiche?
Le fonti informative utili per svolgere il ruolo del progettista sociale possono essere diverse…abbiamo quindi in passato dato voce a Ignazio Punzi, operatore attento e portatore di esperienze illuminanti, ma anche al CENSIS, lasciando poi ad ognuno di noi la libertà di usare queste risorse.
Sicuramente riteniamo importante il livello di analisi che il CENSIS compie, perché, benché siamo operatori e siamo legati alla pratica, guardare in quali direzioni stiamo andando può essere fondamentale: alla fine siamo come qualcuno che rema in una nave, è buona cosa ogni tanto salire a vedere dal punto di osservazione del ponte per vedere quale è la rotta o se c’è un comandante…ma anche se c’è qualcuno che rema dall’altro lato e non stiamo girando intorno..
Il CENSIS, nel 48° Rapporto, rileva gli effetti della crisi sulla società italiana: la crisi c’è, lo sappiamo, è lunga e profonda e consegna un’economia reale pesantemente segnata, in cui sembra difficile trovare soluzioni. Anche perché la crisi è dovuta prevalentemente a fenomeni su cui, direttamente, non abbiamo avuto potere (dinamiche di finanzia internazionale), e sembra complicato trovare risposte locali.
Altri contesti, penso a quello statunitense, hanno risposto in modo logico: la crisi è esito della deregolamentazione del sistema finanziario e provoca sfiducia nel sistema bancario: lo Stato di conseguenza ha immesso capitali e regolamentato il sistema finanziario.
In assenza di una tale visione e chiare leve su cui agire consapevolmente, come ha reagito la società italiana alla crisi? Quali le conseguenze?
A me pare che in Italia la crisi abbia prodotto una frattura tra due epoche, con impatti su tutte le dimensioni della società.
Sarò notevolmente riduttivo, ma non troppo inesatto, nell’affermare che la società italiana si è chiusa nel proprio privato, prevalentemente familiare: la risposta alla crisi, alla povertà e indigenza, alla sfiducia e al senso di fallimento è stata la famiglia, che ha supportato reddito, ha fornito assistenza, ha contenuto stati depressivi, ha garantito sussistenza.
Tutto bene, potremmo dire. O forse no.
Perché, ovviamente, una società che si affida alla famiglia paga costi che stiamo solo iniziando a vedere.
Primo, la famiglia ha certamente molte funzioni sociali e psicologiche, ma proprio per questo sovraccaricarla con altri compiti (legati alle necessità materiali) può stressare quelle stesse funzioni: pensiamo alle convivenze forzate di figli e genitori, magari con età entrambi avanzate e alle conseguenze relazionali e psicologiche.
Secondo, perché anche la famiglia sta faticando e sta diventando insufficiente e inadeguata a promuovere i valori che dovrebbero caratterizzare la società, almeno quella italiana, come la solidarietà e il senso comunitario. Secondo un dato citato durante il nostro incontro, il numero di coloro che affermano che non tutti i cittadini hanno diritto all’assistenza, ma solo quelli che se lo meritano è passato dal 2% all’oltre il 40% in pochi anni. In altri termini, gli italiani stanno diventando più egoisti e spietati verso gli altri.
Terzo, non solo parte dei cittadini non ha costituito una propria famiglia, vivendo soli, ma questa parte sta aumentando (raddoppiata in pochi anni), ponendo un problema rispetto a fasi di fragilità di tutti questi individui, soprattutto nella prospettiva di progressivo invecchiamento della popolazione; sempre più persone avranno bisogni senza avere una famiglia.
Quarto, perché in Italia siamo malati di familismo, ovvero tendiamo a vivere dell’appartenenza solidale con gruppi e ambienti ristetti, e in una fase di crisi questo provoca conflitti e diffidenza. Rispetto ad altre fasi storiche (pensiamo al dopoguerra, in cui quasi tutta la società era coinvolta) la crisi e il malessere di questo momento hanno colpito alcuni e privilegiato altri; molte persone non solo si sentono indigenti, ma si sentono escluse e trattate ingiustamente rispetto ad altre, vivendo una rabbia crescente. Ci sono sempre più poveri e i pochi ricchi sono sempre più ricchi, o meglio, sempre più famiglie povere e famiglie ricche sempre più ricche e il paragone diffonde un senso di fallimento e insicurezza che forse contribuisce a spiegare anche certi gesti estremi. Molte persone sono state drasticamente e repentinamente impoverite da eventi sui cui non hanno responsabilità, e sentono questo come un’ingiustizia e un fallimento esistenziale, che segna il loro valore all’interno di una società che pubblicamente celebra il successo materiale come riferimento ideale.
Queste, per pochi tratti grossolani, alcune riflessioni derivanti dal Rapporto CENSIS che ci propone un quadro che appare del tutto stravolto rispetto a pochi anni fa, in particolare in ciò che comporta rispetto al ruolo dei soggetti impegnati nel disagio.
L’esclusione non riguarda più gruppi definiti e limitati, per il semplice fatto che questa platea ormai è sempre più dilagante, e chi non ha una condizione di difficoltà non si sente comunque al sicuro.
Gli anni ’70, tra le altre cose, ci hanno consegnato una dinamica estremamente importante, peculiare in Italia: al diffondersi di politiche di protezione sociale corrispose una crescita mai vista prima di iniziative imprenditoriali, che raddoppiarono. L’economia, quindi, in Italia è dipendente dal diffondersi del senso di sicurezza e di fiducia nel sostegno che la comunità può offrire.
Occuparsi di “disagio” adesso significa quindi assumere la responsabilità di dare una risposta alla crisi sociale che in Italia è prodotta, ma a sua volta è anche causa della crisi economica, o almeno del suo perdurare.
In che modo questo quadro può o deve cambiare il nostro modo di fare progettazione sociale? Possiamo continuare a dare unicamente risposte specialistiche su categorie di bisogni o problemi specifici e localizzati?
Che rapporto c’è tra le prassi operative e le dinamiche sociali più ampie? Cosa significa oggi innovare le forme di intervento? È sufficiente offrire nuove risposte ai soliti problemi (dispersione scolastica, disoccupazione, immigrazione, esclusione sociale…)? Cosa altro siamo chiamati a proporre?
In che modo possiamo leggere e intervenire nelle dinamiche che stanno indebolendo ulteriormente il già precario senso comunitario italiano?
Mi pare che adesso, come forse mai prima, chi è coinvolto attivamente nel cambiamento sociale abbia una grande responsabilità nel determinare il futuro del paese; ci spaventa questo?