Chi sei e di che cosa ti occupi?
Sono Alberto Bortolami, progettista sociale, gestore di programmi e progetti complessi e formatore. Andando oltre la copertina, sono una persona molto curiosa e appassionata di terzo settore e – in generale – di bene comune; lavoro volentieri con persone interessanti e convinte, come me, che un mondo migliore sia possibile e realizzabile. Credo nella ricchezza del lavorare insieme e nel mettere a fattor comune diverse professionalità.
Cosa ti ha portato in APIS e qual è il tuo contributo?
Mi ha portato in APIS la voglia di conoscere persone nuove che si sperimentano in un contesto difficile e in forte evoluzione. Credo che la ricchezza che può portare ogni progettista sociale abbia un valore inestimabile: aiuta a trovare soluzioni condivise a problemi che tutti viviamo e contribuisce a diffondere intuizioni di successo che altrimenti resterebbero isolate e sconosciute.
In APIS ho inizialmente partecipato ad un gruppo di lavoro che ha delineato le linee di sviluppo future dell’Associazione, per poi dare la mia disponibilità a far parte del Consiglio Direttivo e a coordinare il Cantiere di lavoro che mira a sviluppare un’offerta consulenziale.
Quale aspetto della progettazione sociale ti pare il più interessante oggi?
Gli aspetti più interessanti che vedo oggi sono due: uno riguarda un piano strategico, l’altro invece è relativo ai contesti difficili in cui operiamo.
Primo aspetto: è fondamentale che la progettazione sociale sia integrata nella strategia complessiva dell’organizzazione. Il progettista sociale deve diventare sempre più un facilitatore di processi, un qualcuno che coglie e mette a sistema le ricchezze interne all’organizzazione nell’ambito di una cornice strategica di senso dell’intera realtà. È poco utile, per non dire dannoso, vedere la progettazione sociale come un’oasi a sé stante, che sviluppa progetti indipendenti e scollegati l’uno dall’altro e dalla realtà stessa che li propone, con il solo fine di ottenere finanziamenti.
Secondo aspetto: diciamo chiaramente che il nostro è un lavoro difficile, che più si innova e più si sbaglia. Sbagliare è inevitabile, è parte del quotidiano di ciascuno di noi. Nel nostro lavoro la perfezione non esiste, esistono solo soluzioni migliori o peggiori, che vanno sperimentate e adattate. Chi è convinto di non commettere errori o non ne è consapevole oppure è nella propria zona di comfort (dalla quale è impossibile fare innovazione sociale). Sbagliare è il modo migliore e più veloce per apprendere. E allora, dove sta il valore aggiunto di un buon progettista sociale? Nell’accorgersi degli errori, nel farne tesoro e nell’adottare velocemente gli opportuni correttivi.
Quali sfide vedi all’orizzonte?
Come Paese abbiamo una sfida enorme da affrontare ed è quella del Piano Nazionale Ripresa e Resilienza. Arriveranno quantità di fondi mai viste nei tempi recenti, in un tessuto sociale logorato dalla pandemia e dalle divisioni ideologiche; i tempi saranno molto stretti e il monitoraggio (giustamente) serrato. Come progettisti sociali abbiamo il dovere di contribuire con le nostre competenze. Mi sta a cuore in particolare il coinvolgimento dei beneficiari diretti e in generale delle comunità che “vivranno” gli interventi. Dobbiamo riuscire non solo a fare le cose per le persone, ma con le persone stesse.
Ci diresti 3 cose per cui la Progettazione Sociale è importante?
Certamente. Perché:
- ci permette di dare concretezza alla nostra vision, alla nostra mission e di raggiungere i nostri obiettivi, meglio se rappresentati strategicamente anche grazie ad una teoria del cambiamento a livello di organizzazione;
- ci dà l’occasione di fermarci, pensare a quello che facciamo e provare a pensare ad un agire futuro della nostra organizzazione migliore di quello presente;
- ci permette di sbagliare in maniera sensata, di accorgerci dei nostri errori, di correggerli in fretta e di imparare da essi.