* Trascrizione rivista dell’intervento di Jamil Amirian in occasione del Convegno del 17 maggio 2019 presso l’Università Roma Tre, Facoltà di Economia e Commercio
Avere ottenuto una norma, anzi avere ottenuto questa norma non è un risultato scontato, ma, è l’esito di un complesso percorso di confronto, ripensamento, e soprattutto decisioni non ovvie. In questo mio intervento mi propongo di mettere in evidenza quelli che sono, dal mio punto di vista, i più significativi elementi di un’operazione il cui impatto possiamo solo iniziare a immaginare.
Non è scontato avere ottenuto una norma, tramite un progetto durato 6 anni che in molti momenti ci ha visti seriamente dubbiosi circa l’esito, perché non era scontata la necessità di questa norma, anzi. Non è scontato, infatti, che la progettazione sociale venga considerata come funzione distinta; per chi come noi svolge questa attività da decenni sembra quasi superfluo, ma credo si tratti di un passaggio pubblico realmente rilevante che occorre approfondire. Il progettista sociale non è unicamente un sociologo che svolge una delle forme applicative della propria disciplina, così come non è un assistente sociale che espleta un ambito della professione.
Abbiamo già ringraziato per la disponibilità, la passione e la sincerità del loro contributo i nostri amici del PMI, i primi che hanno affermato insieme a noi che il progettista sociale non è neanche un project manager che si occupa di utilità sociale. Mi pare utile sottolineare in particolare questo aspetto: il project management rappresenta un fondamentale sistema di costruzione cognitiva e ricostruzione operativa dei processi collaborativi, trasversale e generale, a supporto di ogni attività concertata che abbia obiettivi, risorse e tempi definiti; la nostra norma assume che l’ambito di responsabilità e competenza del progettista sociale esula anche dal project management, così definito, perché riguarda un perimetro di funzioni specifico e solo in parte sovrapponibile a tale disciplina.
Spero sia chiaro come queste affermazioni rappresentino tesi rilevanti, che ci responsabilizzano a proporre contenuti e posizioni teoriche chiare e condivise che permettano di giustificarle, come in seguito proverò a fare.
Il secondo elemento rilevante è dato dal processo che lo sviluppo della norma ha seguito. Su questo, anche orientati dalla finalità sociale della legge 4/2013, credo che si possa affermare che il nostro percorso rappresenti un unicum nel panorama molto complesso di chi si è occupato di descrivere le competenze e gli scopi della progettazione sociale, perché è stato guidato dalla sistematizzazione dell’esperienza operativa. Non siamo stati infatti i primi a provare a delimitare tale campo di responsabilità professionale: profili articolati in descrittori ormai di uso comune già esistevano (penso alla figura “Tecnico dell’analisi dei fabbisogni in campo sociale e della progettazione di interventi, servizi sociali e socio-sanitari” del repertorio della Regione Campania, o a quello omonimo e speculare del repertorio della Regione Toscana) ma, come è noto, nessuna operazione simile è stata mai compiuta a livello nazionale.
Se poi si prova ad approfondire i riferimenti teorici e le scelte disciplinari in essi contenuti, si presenta una significativa variabilità: si va dalla Regione Lazio, che definisce tout court “Project manager” una figura molto vicina al progettista sociale, alla Toscana, che cita come classificazione ISTAT di riferimento gli “Assistenti sociali”, e gli “Esperti nello studio, nella gestione e nel controllo dei fenomeni sociali”, all’Atlante del Lavoro e delle Qualificazioni, per cui l’ADA “Progettazione di interventi socio-sanitari” ha come codice ISTAT di appartenenza “Psicologi clinici e psicoterapeuti”; per inciso, gran parte dei percorsi formativi post universitari in progettazione sociale sono realizzati da docenti in sociologia, se non all’interno di Facoltà di Sociologia.
La questione resta quindi aperta sul piano dei fondamenti teorici della funzione e della pratica di progettazione sociale, questione che ci auguriamo si possa affrontare direttamente ed esplicitamente in futuro.
Rispetto a questo, il nostro progetto non ha avuto l’obiettivo di proporre una tesi alternativa, se non quella della irriducibilità della progettazione sociale ad altre professioni esistenti, tesi che ha fondato il progetto stesso e ha reso obbligatorio un percorso di conoscenza diretta e sistematizzazione delle pratiche, piuttosto che ipotesi derivate dalle scienze o da corpus conoscitivi già confinati.
La natura di APIS come associazione professionale costituita da oltre 150 esperti distribuiti sul territorio nazionale e soprattutto la partecipazione del Forum Nazionale Terzo Settore, che rappresenta oltre 140 mila realtà operanti nel sociale, ha consentito di ancorare le proposte ad una comprensione di quanto le comunità locali chiedessero ai progettisti sociali, e di quali fossero le metodologie da questi costruite in oltre 40 anni di pratica.
Ci è sembrato importante e coerente trattare il tema della progettazione sociale dando visibilità soprattutto agli operatori, nella prospettiva di facilitare la valorizzazione e la condivisione delle esperienze, codificate secondo standard riconoscibili e tramite un processo pubblicamente validato.
Questa direzione, che ritengo inedita, ha aperto anche prospettive rilevanti rispetto all’ambito di responsabilità che i progettisti sociali riconoscono e dichiarano di aver assunto e che mi consente anche di argomentare le affermazioni con cui ho iniziato questo mio intervento.
La prima è che la funzione della progettazione sociale è connessa ad un presidio di processo, oltre che di esito.
Non è sufficiente, anzi può essere deleterio, orientare l’azione dei progettista sociali ai risultati attesi, indipendentemente dalle dinamiche operative e relazionali che sono state attivate e dai vissuti soggettivi che le connotano; questo è un aspetto distintivo della progettazione sociale rispetto ad altri tipi di progettazione, per cui le persone non costituiscono una risorsa per realizzare i risultati, ma in gran parte determinano esse stesse, con i legami e i rapporti promossi, con le loro valutazioni e orientamenti personali, il valore del progetto e degli esiti raggiunti.
La seconda è che questo processo è imperniato su principi a loro volta specifici e costitutivi; la progettazione sociale non si occupa, infatti, unicamente di facilitare la partecipazione, ma ha come oggetto di azione il protagonismo e la promozione del potere dei soggetti che essa coinvolge. Non si orienta alla delega e a logiche di rappresentanza, ma allo sviluppo di relazioni quanto possibile paritarie tra soggetti cooperanti.
Ovviamente, questi aspetti sono caratterizzanti, non esaurienti la responsabilità del progettista sociale, che comunque riguarda anche l’attenzione a risultati e al programma di attività, in una dialettica costante tra logiche di pianificazione e esplorazione generativa ed intersoggettiva, dialettica che è essa stessa di competenza della progettazione sociale.
La terza è la funzione prospettica e di connessione dell’azione locale con i sistemi sociali di appartenenza, in una visione etica in cui l’interesse da perseguire è quello della collettività più diffusa, e in ultimo della società; un’azione progettuale realmente sociale non si limita agli interessi dei singoli committenti ed destinatari, ma è orientata al cambiamento generale e ad un’idea del futuro dell’intera comunità umana.
Va in questo senso i richiamo agli interessi universali contenuto nel codice deontologico incluso nella norma (con i riferimenti alle varie carte dei diritti umani), che responsabilizza il progettista sociale ad una visione politica e di animazione di risorse implicite ed indirette, che sposta l’ambito di competenza molto oltre le funzioni strettamente esecutive.
Mi pare siano evidenti alcune conclusioni.
Una delle principali attività in cui, come operatori, siamo impegnati è la mediazione tra enti finanziatori, per lo più amministrazioni pubbliche, ed enti attuatori; la norma identifica in questo ruolo uno dei fondamenti della progettazione sociale, ma non l’unico. In questo, la direzione contenuta nella norma riguarda una valorizzazione di una serie di aspetti processuali non canonicamente oggetto di interlocuzione, se non addirittura di interesse, dei decisori pubblici; se questo stato di cose permarrà, è evidente che l’impatto sulla cultura delle prassi sarà molto ridotto, ed è da aspettarsi che vi sarà una selezione naturale rispetto alla comunità professionale, che tenderà a premiare logiche di risultato, visibilità e dimensioni formali, piuttosto che processi di collaborazione continua e sostanziale. Agire la progettazione sociale, così come l’abbiamo definita nella norma, dovrà riguardare necessariamente un ripensamento e un miglioramento dell’insieme dei processi decisionali ed operativi, quindi non unicamente la progettazione di interventi, ma l’interazione e l’interdipendenza con le logiche di programmazione e finanziamento.
La seconda conclusione è che, pur provenendo da una necessità di una comunità di operatori e professionisti, la metodologia di progettazione sociale ha una domanda e un’ambizione molto più ampia, che riguarda la possibilità delle comunità di attivarsi per migliorare la propria condizione e, in prospettiva, per contribuire a rendere migliore la società, promuovendo legami fiduciari e potere diffuso e restituendo valore alla partecipazione. Mi sembra che questa direzione sia altrettanto importante e necessaria, in una fase storica in cui sfiducia e dinamiche di delega sembrano aver sostituito la voglia di impegnarsi in prima persona e che la progettazione sociale avrà offerto il proprio contributo metodologico solo se, in un qualche modo, avrà contribuito ad invertire questa tendenza.